Indietro

home

Avanti

pagina 3

dicembre 2005

Numero 1

Prima, prima dell’accoglienza, della casa famiglia, vivevano nel piazzale di un’altra stazione romana, l’Ostiense, vivevano in scatole di cartone, che fosse freddo o caldo, notte o giorno. Vita da barboni, non certo per scelta. Quindici, sedici, diciassette anni, a volte meno.

Meglio qui che nella devastata Kabul, m’ha detto un’amica afghana ed io non vorrei crederle.
Sono tutti hazarà questi ragazzi poco più che bambini, hazarà, quella che con i tagiki, i pasthun e gli uzbeki è tra le etnie più importanti in Afghanistàn. Sì, sono afghani i vari Afthab ed io sono qui, invitata dall’affidatario, un francese che li accoglie, insegna loro l’italiano, si preoccupa di conoscerli uno ad uno, che fa l’impossibile per donare calore e umanità, che vi riesce.

Siamo qui, in questo scantinato annegato nell’odore di muffa, qui con gli orfani delle nostre guerre, quelle di oggi, d’occidente, preventive, i nuovi orfani, quelli rimasti, avanzati, se così non fosse, se non fossero “avanzi” di guerra, non sarebbero qui, come tutti quegli altri, quelli saltati in aria laggiù, nella loro terra, quando le bombe a grappolo avevano lo stesso colore dei pacchi umanitari, giallo, e i bambini correvano ad aprirli, per sfamarsi. Per sfamarsi saltavano in aria, cambiavano mondo. Così, per errore. Errori della civiltà.Afthab mi ha chiesto perché questo mio libro parla della sua terra, per amore, ho risposto di getto. Mi ha guardata, negli occhi indomiti severità, dignità, l’intelligenza dei suoi avi, ha scrutato il mio sguardo a scorgere il vero o il falso, ha sorriso, dopo, ha tradotto le mie parole per chi, tra i suoi compagni non comprendesse la lingua italiana, non ancora. Hanno sorriso tutti, anch’io.

Poi lo schermo del vecchio televisore nella stanza ammuffita s’è fatto finestra, finestra aperta sulla loro terra, sui ricordi, sulla nostalgia, aperta sulle montagne dell’Hindu Kush, sul desiderio celato del ritorno, aperta sul film documento di Christophe de Ponfilly, quello su Massoud, il Leone del Panjshir, aperta sull’Afghanistàn.

 

Tutto s’è riflesso nei loro occhi, sui volti, quei volti bambini, attenti, tutto è scorso, ha creato un ponte, un invisibile ponte fantasia, un ponte lungo due ore e migliaia di kilometri. Su quel ponte l’odore di muffa s’è fatto ossigeno di montagna, di deserto, s’è rarefatto, mentre la fredda luce al neon nella stanza, si faceva bagliore di fuoco, di lanterna, fioca lampada lungo la via. Due ore di silenzio immerso nello scorrere delle immagini, nelle voci lontane, registrate, ogni tanto qualche sguardo d’intesa fra loro o scambiato con noi, come a dire: ecco la mia terra, è bella. Due ore di silenzio per tutti, comprese le assistenti sociali, l’amico francese, me. A noi si addice la nostalgia, il ricordo, a noi si addice il desiderio del ritorno, a noi, agli adulti, non si addice a loro, non a queste giovani vite, è nota stonata, procura fastidio, dolore.

Ognuno di loro ha tracciato la mappa del percorso, il proprio, quello della fuga, quello verso le luci al neon, allo iodio, le stesse che sbiancano i volti, lo arrossano, li deturpano, quelle della stazione Termini, le prime, le luci d’occidente, violente ai loro occhi. Il primo incontro.Il tracciato è stato chiesto loro dall’amico francese, per saperne di più, l’hanno eseguito con gioia, ognuno ha segnato il percorso verso occidente su piccole carte geografiche scaricate da internet, fotocopie. Su questa strana via della seta al contrario, Kabul, Ghazni, Herat, Mazar-e-Sharif, Kandahar e ancora e ancora città afghane, paesi, villaggi, poi, dopo, Iran, Turchia, Grecia, Italia, Roma stazione Termini.

Solo uno tra loro viene da Teheran, nato in Afghanistàn, con i genitori la fuga in Iran al tempo dei sovietici, è Eskandar, anni diciassette, anche lui, come Afthab, possiede con chiarezza la nostra lingua pur se con qualche articolo in meno, qualche infinito in più, ma sono soltanto trenta i suoi giorni italiani. Sto osservando il grafico del suo percorso, la domanda giunge improvvisa: anche Teheran con bombe?, dice, come prima di getto rispondo: no, no. Mi guarda come ha fatto Afthab e, roteando l’indice destro a mò di, dopo, dice: poi? Un vuoto alla bocca dello stomaco mi impedisce di rispondere.

 continua...

stampa