Considerazioni inattuali sulla scuola

Emanuele Severino racconta di essere stato invitato a partecipare nel 1997 ad una commissione istituita dal ministro Berlinguer per discutere la riforma dei programmi scolastici della scuola media superiore e di aver constatato come la maggior parte degli interventi si concentrassero sul metodo e non sui contenuti. Chiunque insegni nelle superiori si rende conto benissimo di questo capovolgimento per cui le questioni metodologiche, fino al calcolo minuzioso di griglie e dintorni, espressioni di una razionalità burocratica, tecnica e scientifica con relativa mitologia dell’oggettività, prevalgano largamente sulle questioni di contenuto culturale e formativo.

Si può, si deve invertire questo destino? E questa opposizione ad esso deve assumere l’aspetto di una restaurazione del passato (destra), o di una conservazione del presente (sinistra)? E può la scuola rappresentare un’isola, un ambito in cui le tendenze dominanti vengono assunte criticamente?
Cacciari scrive che la scuola non deve adattarsi al destino dei tempi: bisogna individuare quale è questo destino, e se anche fosse inevitabile, se ci piace e possiamo/dobbiamo o meno conformarci ad esso. Ricordare l’etimologia da cui proviene il termine scuola (dal greco scholé: tempo libero, occupazione studiosa) non appare quindi un esercizio retorico: per Cacciari la scuola dovrebbe rappresentare uno spazio ed uno stato generatore di potenzialità più che la trasmissione di contenuti o il perseguimento di scopi precisi; un centro di libera interrogazione critica e non di “produzione di impiegati” (Nietzsche). I classici in questo senso rappresentano ciò che si oppone alla scuola azienda non in quanto educherebbero a sempiterni valori ma in quanto traggono fuori i giovani dal culto servile delle mode.
Per Severino all’ineludibile domanda: cosa devono sapere i giovani che escono dalla scuola pre-universitaria, bisognerebbe rispondere: mostrare, articolandolo nelle differenti materie, il contrasto, la tensione tra la tradizione e la cultura occidentale-umanistica da cui proveniamo e la cultura economica, tecnica e scientifica, il paradiso delle merci e della tecnica in cui siamo immersi. Preparare i giovani tenendo conto di uno solo dei poli di questo contrasto può produrre anime belle o tecnici idioti.
“I programmi – scrive inoltre Severino – sono assurdamente e pateticamente elefantiaci in area sia umanistica che scientifica e quindi devono essere radicalmente ridimensionati, cioè ridotti ai nuclei generativi della conoscenza. I manuali di migliaia e migliaia di pagine, di cui gli studenti da troppo tempo sono vittime, non sono quasi mai prove di impegno e di accuratezza, ma sono monumenti alla pigrizia e alla confusione (giacché è pigrizia accatastare tutti gli argomenti che stanno attorno), e riducono la libertà di insegnamento allo squallido compito di amputare questa o quella parte del testo. L’amputazione – che tende ad essere casuale come tende ad esserlo la giustapposizione indefinita degli argomenti nel manuale – sostituisce la discussione critica, da parte dell’insegnante, della proposta culturale che il libro di testo deve fornire”.
Anche per Galimberti la scuola e i docenti prestano più attenzione a misurare l’efficacia della prestazione e il raggiungimento di un profitto scolastico, linguaggio non a caso mutuato dall’economia, che non alla formazione-educazione. (Il sapere non è una merce è tuttavia uno slogan che rischia di suonare nient’altro che come il proclama di anime belle ed impotenti: il sapere è già anche una merce venduta e comprata, e bisogna vedere se e come possa essere non solo o principalmente al servizio del mercato).
Per Galimberti, le riforme, i continui riaggiustamenti ministeriali non toccano mai il disinteresse emotivo e intellettuale di studenti e docenti. I ragazzi attendono qualcuno che li traghetti e gli insegni una competenza del desiderio e il modo di stare al mondo.
Invece, nella routine scolastica, se vengono tenuti in considerazione lati umani, caratteriali o contesti familiari, sociali, degli studenti, lo sono solo in funzione di una migliore formulazione del giudizio scolastico, magari come attenuanti generiche; per verificare se la sfera del sentire possa aver interferito o indebolito l’indiscusso primato e autonomia della capacità di intendere e di volere. (Parlare solo se interrogati è un altro resto retaggio tradizionale che accomuna scuole e tribunali).
La scuola struttura inoltre luoghi e tempi, ovvero determina le modalità spazio-temporali della trasmissione dei saperi (partizione oraria, disciplinare etc.). Non dovrebbero essere ridiscusse e trasformate anche queste modalità? Immaginare una scuola più aperta ed elastica sia in senso temporale (il pomeriggio), sia spaziale (relazioni con altre istituzioni e costruzione di una rete sul territorio)? Come si fa a non rendere il teatro e la musica attività di formazione permanenti? Non potrebbe essere sperimentata la separazione delle attività didattiche da quelle di verifica, come nell’impianto universitario, così come l’intensificazione di quelle di aggiornamento culturale e interdisciplinare?
Ritengo che nessuna riforma possa, o debba, istituire per decreto, dall’alto, simili innovazioni didattiche; ma debba solo prevedere, invece, uno spazio da riempire con iniziative che rendano concreta ed efficace una crescita della autonomia didattica. Esigenza che nasce dal bisogno di partire dall’ascolto delle domande e dei silenzi che, dentro e fuori la ritualità scolastica, ci sentiamo porre sullo studio delle varie materie; dalla necessità di utilizzare un linguaggio non solo specialistico. Prestare attenzione a questo, significa non limitarsi a ingranare la marcia di spiegazioni, magari anche di grande qualità culturale, che trascurino, però, la necessità di ripartire sempre da un livello più semplice e vicino ai ragazzi; di tornare a sperimentare la migliore mediazione possibile tra il sapere del docente e quello degli studenti, sforzandosi di offrire gli input giusti per appassionarsi e capire. Solo così, credo, ricordandosi anche delle difficoltà e della noia di quando si è stati studenti per certi modi ‘scolastici’ di trattare gli argomenti, si possa non ricadere in un giovanilismo retorico e demagogico, ma andare incontro alle sensibilità e curiosità dei ragazzi.

1 Commento su "Considerazioni inattuali sulla scuola"

  1. Alfonso Marotta | 30 novembre 2008 su 10:00 | Rispondi

    in altre parole una scuola libera e sensibile…

    sono d’accordo con lei, io penso che la scuola debba avere un traguardo o una meta a cui puntare e se c’è ora, di certo non è quella di formare lo studente a vivere in una società in continua evoluzione.
    Non facciamo altro che studiare studiare e studiare il più delle volte senza passione, studiamo e dimentichiamo.. “perdiamo tempo”..
    A volte però non è mancato un input che la scuola mi ha dato per avanzare e proseguire studi autonomi su argomenti di vario genere e ho acquisito competenze valide. Questo significa che lo studente, anche quello “scadente” può innalzarsi ad un livello più alto se e solo se quella cosa che studia lo appassiona, questo avviene se e solo se la scuola (come scritto da lei) apra le porte a non solo a quei pochi frammenti di studio e di metodo usati ormai da troppi anni.. ma si possa felettere a nuovi metori.
    Un cordiale saluto, Marotta Alfonso VE

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