DIETRO IL SILENZIO


Il Silenzio - Foto di Peppe Del Rossi

Quando si parla di violenza verso le donne, viene subito in mente quella fisica, tuttavia essa è solo una delle forme di abuso, certo eclatante e forse in qualche modo più facilmente identificabile ma non è la sola grave nelle sue conseguenze. La violenza psicologica infatti precede di solito quella fisica, in altri casi è la forma prevalente od esclusiva. E’ perciò necessario non sottovalutarla perché è la tipologia di violenza che si perpetua più diffusamente ogni giorno, in diverse occasioni e contesti, portando a conseguenze molto articolate quali, ad esempio, l’isolamento, la solitudine, la autosvalutazione, sino a forme ossessive e compulsive. Il cosiddetto mobbing, termine di moda approssimativo ed a volte improprio, è dato da forme di forte pressione psicologica, vessazioni, umiliazioni, denigrazioni, minacce, ecc. perpetrati da un gruppo, o da un singolo, contro una persona. Le violenze psicologiche, specialmente se subite in giovane o giovanissima età, producono effetti che si protraggono nel tempo e possono segnare indefinitamente la vita di una persona. Che siano abusi psicologici a sfondo sessuale o di denigrazione ed umiliazione, essi possono, anche attraverso la somatizzazione, arrecare danni non minori di una violenza fisica diretta.

L’altra forma di violenza diffusa è quella di tipo sessuale, che provoca vergogna e umiliazione nella donna, ingenerando spesso una serie di reazioni psicosomatiche a cascata.

Più volte chi compie violenza è una persona di cui ci si fida, così la donna tende ad assumersi tutte le responsabilità degli abusi subiti aumentando i propri sensi di colpa; oppure, la donna accetta per lungo tempo la situazione senza troncarla o denunciarla Infatti la precedente relazione di fiducia ed affetto, l’ostilità sociale e/o familiare, la forte pressione data da un malinteso senso di vergogna morale e sociale, sono gli aspetti che maggiormente impediscono di denunciare l’accaduto e che possono generare un blocco emotivo-comportamentale quasi di giustificazione e sostegno all’aggressore, sino ad una possibile identificazione con l’aggressore (Sindrome di Stoccolma).
Va sottolineato comunque che, parlando di violenza di tipo sessuale, sarebbe bene evitare di mescolare genericamente la violenza con la sessualità, mentre non è raro che nei mezzi di comunicazione sfumino i confini suggerendo quasi che la vita sessuale possa portare facilmente (o inevitabilmente) alla violenza, in ciò dando della violenza connotazioni di genere (la differenza di genere alimenta la violenza o la violenza ha un genere), od una implicita valutazione etico religiosa (limitare la sessualità = limitare la violenza; perché sessualità = male), o giustificazioni che le sono invece estranee e che possono indurre in analisi fuorvianti che non aiutano a risolvere il problema.
I casi, purtroppo ripetuti, di violenze di tipo sessuale individuali e/o di massa in contesti bellici e/o di terrorismo etnico-religioso, verificatisi in culture e società molto diverse tra loro, dai campi di concentramento tedeschi nazisti alle contemporanee incursioni nei villaggi africani, inducono a maggiore cautela nel semplificare il tema (vi rientrano ad esempio anche alcuni casi di violenza di donne contro donne) ed evidenziano la sua cruda essenziale caratteristica: si tratta di violenza distruttiva.
Altra forma di violenza è quella coniugale e/o domestica, che pone numerosi e seri problemi a livello sociale, familiare e psicologico, ma la relazione di fiducia nella coppia, o rigide norme sociali familiari per le quali essa sarebbe quasi “normale”, sono l’aspetto che maggiormente impedisce di denunciare l’accaduto per cui solo di recente se ne è riconosciuta l’estensione e la gravità e si è cominciato a prendere seriamente in considerazione le conseguenze che sono di ordine non solo psicologico ma anche sociale ed economico. Ancora una volta la cultura della società e talora le sue connotazioni religiose (specialmente nei Paesi nei quali la morale religiosa sessuofoba prevalente tende ad essere direttamente trasposta nelle norme giuridiche e sociali) forniscono presunte giustificazioni a tale forma di violenza dando netta prevalenza alla “tutela della morale” ed all’istituzione sociale matrimoniale rispetto al diritto alla tutela della propria persona fisica.
Non ultima, è la violenza economica che si esplica quale strumento attraverso il quale con la privazione e la forte limitazione dei mezzi di sussistenza, si impedisce di fatto l’indipendenza economica del soggetto. Questa forma è talora corollario ad una delle forme precedenti, così come quando donne sfruttate con violenza di tipo sessuale non hanno accesso a modalità alternative di sopravvivenza. Molte di queste forme di violenza sono legate a dinamiche di potere: interpersonale, sociale, di gruppo. Chi esercita violenza vuole assumere il controllo della situazione dimostrando (agli altri, ma forse principalmente a se stesso) di saper e poter controllare la situazione. La violenza è spesso un processo diadico perpetratore-vittima, con una ampia variabilità di manifestazioni e conseguenze, come nei casi nei quali la vittima –ad esempio di persecuzione solo psicologica- è portata ad esercitare su se stessa forme di violenza fisica (autoferimenti, mutilazioni, sino ai tentativi di suicidio). Ma è anche connessa a più ampie dinamiche collettive e forme di potere culturale e morale, come ad esempio nei Paesi nei quali la forte repressione femminile evidenzia una implicita ed atavica incapacità a controllare una ipersessualizzazione di fondo della donna e del corpo umano, alimentata dalla stessa scelta di usare la repressione della sessualità come strumento di controllo sociale.

Subire violenza è un’esperienza fortemente traumatica che produce spesso effetti devastanti sulle vittime, effetti che si protraggono per lungo tempo, anche se, è chiaro che ciascuna persona reagisce in modo diverso. Le conseguenze sul processo di definizione dell’identità incidono tanto più negativamente quando più la vittima è giovane. Una volta subito il trauma fisico, le reazioni possono essere molto diverse: le statistiche parlano di depressioni anche gravi, di una profonda e generalizzata paura degli altri, di persistenti disturbi dell’affettività e stravolgimenti nella quotidianità della propria vita. Vengono messe in discussione le capacità di difesa e di autosufficienza della vittima, incidendo negativamente sulle possibilità di autonomia e indipendenza. La violenza genera una profonda crisi di insicurezza e impotenza, una grave perdita di autostima. Effetti non appariscenti, frequentemente camuffati e minimizzati dalle stesse vittime perché temono l’ostracismo sociale, ma che lasciano il segno.
La minimizzazione o la negazione del problema possono infatti essere strategie adottate per cercare di sopravvivere alla sofferenza e al dolore per una vita che si sente ormai distrutta e/o per evitare di subire l’emarginazione sociale che paradossalmente in numerosi contesti colpisce la vittima e non l’aggressore. La vittima può rischiare di essere etichettata in modo negativo (ed emarginata) per il resto della vita, specie se vive in contesti piuttosto chiusi e limitati. Tale negazione dell’accaduto diviene però un rischio potenziale perché interferisce nella gestione del vissuto personale della vittima, alterando le proprie scelte consapevolmente ma in modo non sempre adeguato.
La ricerca scientifica parla in questi casi più specificamente di disturbi da stress post traumatici (PTSD –post traumatic stress disorders), si tratta di una ampia casistica di sintomi e sindromi di varia natura ed ampiezza, spesso non collegati direttamente al precedente trauma in sede di diagnosi. Dall’ansia ai disturbi circolatori, da alterazioni del ciclo ormonale ad alterazioni della concentrazione, sino ad un maggior rischio di contrarre malattie a causa di uno sbilanciamento nel sistema immunitario.
Malgrado non esistano tempi di reazione e superamento del trauma universalmente validi, la maggior parte degli studi individua tre fasi nel processo di risoluzione del trauma. In un primo tempo sembrerebbe predominare un senso di estremo disorientamento dovuto allo choc emotivo, a cui si associa una forte tendenza alla rimozione (può comparire in questa fase un’ostilità verso tutti gli uomini, e/o verso le interazioni sociali o crisi di ansia quando si è in mezzo alla folla).
Subentrerebbe poi una seconda fase di razionalizzazione, una strategia funzionale, che potrebbe far pensare ad un avvenuto superamento del trauma mentre, in realtà, può essere un momentaneo occultamento del problema.
La terza fase sarebbe invece caratterizzata da forme depressive e tendenza a rivivere l’accaduto, ma spesso la mancanza di forza necessaria ad affrontare con distacco i fatti (e di sostegno sociale), determina la sedimentazione di angoscia profonda che può sfociare in sentimenti di incapacità.
Può facilmente instaurarsi anche un paralizzante vissuto di vergogna e colpa, una condizione abbastanza comune nelle vittime colpite da questi reati. In altri casi invece si può determinare una sorta di cronica ansia di rivalsa, la ricerca di una compensazione reale od immaginaria. La legislazione di vari Paesi, inclusa quella Italiana, ha prodotto molte norme in materia di reati, di colpevoli e del loro recupero e reinserimento nella società, molto meno in materia di vittime, spesso lasciate a se stesse e paradossalmente non di rado meno tutelate degli aggressori. Così, mentre la letteratura scientifica e la giurisprudenza su chi commette i reati sono articolate e prevedono interventi a difesa di chi è accusato di violenza, la vittimologia solo in anni recenti sta conquistando un maggior spazio e ci si sta accorgendo di varie incongruenze sia normative che culturali.
In diversi Paesi vi è stata una sorta di negazione del problema sia da un punto di vista istituzionale che sociale e culturale. La violenza di tipo sessuale, perché è un evento del quale meglio non parlare per questioni “morali”, la violenza di tipo domestico invece perché per molto tempo è stata “invisibile”, cioè percepita come un affare privato familiare e non come un reato contro la persona. Per tali motivi, sono ancora limitate le ricerche e le pubblicazioni che si occupino adeguatamente e scientificamente di queste forme di violenza.

Una presa di coscienza diffusa ed un cambiamento di valutazione culturale verso la violenza, e parliamo di violenza senza ulteriori aggettivi, sarebbero già un primo, grande passo verso la soluzione di un grave problema. Soluzione, per ora, tutt’altro che vicina.

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