Economia e felicità nella tradizione illuminista napoletana

In occasione del II incontro sul tema “Progettare la felicità”, promosso dall’ ICOM con il patrocinio di varie associazioni, tra gli altri aspetti presi in esame ha suscitato particolare interesse il riferimento alla cosiddetta scuola napoletana di economia. La scuola napoletana di economia, oggi probabilmente ignota ai più, fu tra le prime e più autorevoli nell’esaminare il rapporto tra economia e felicità pubblica, come era allora definita. Ciò ben prima della recente “riscoperta” del tema da parte di alcuni economisti di varia estrazione. Si era nella Napoli illuminista del XVIII secolo, nel pieno di quella che sarebbe stata definita la nascita dell’economia classica. Per tale motivo, sul finire dell’800, l’economista italiano Achille Loria scriveva che gli economisti italiani, “si occupano non tanto, come Adamo Smith, della ricchezza delle nazioni, quanto della felicità pubblica”(* nota 1).

Quali erano le radici di tale interesse e quagli gli intellettuali di spicco? Ritroviamo la felicità nel titolo del trattato di Giuseppe Palmieri “Riflessioni sulla pubblica felicità”, del 1787. Paolo Mattia Doria iniziava invece il suo “Della vita civile” (1710) con la seguente frase: “Primo oggetto dei nostri desideri è senza fallo l’umana felicità”. Ma colui che maggiormente va ricordato fu Antonio Genovesi che nel suo lavoro “Economia civile” intrecciava il benessere economico con quello civile, entrambi considerati fondamentali per lo sviluppo di una nazione.
Il Genovesi, spesso trascurato nei testi di storia economica(*nota 2), andrebbe invece rivalutato assieme ai vari intellettuali che animarono la scuola napoletana e che, grazie alla loro visione non meramente economica, hanno lasciato una traccia più significativa di coloro che, chiusi nell’angusto recinto del proprio ambito accademico disciplinare, hanno progressivamente isterilito la ricerca economica (*nota 3).

La scuola napoletana dell’ economia civile, non politica come nella tradizione anglosassone o pubblica come in parte della tradizione italiana e francese, con il Genovesi affonda le proprie radici di sviluppo nei corpi civili, ovvero nella vita civile (norme, famiglie., ecc.) ed urbana(* nota 4). Non estranea a tale approccio l’influenza del grande studioso napoletano Gianbattista Vico, tra i suoi maestri intellettuali e precursore di alcuni dei temi propri dell’illuminismo. La tradizione economica classica di derivazione anglosassone ha percorso invece vie diverse nel trattare della felicità, concentrandosi più sulla ricchezza delle nazioni, e trascurando l’importanza delle vita civile, oggi invece al centro di rinnovati studi economici. Tra gli altri, i premi Nobel per l’economia Sen, Stiglitz. Williamson e Myrdal che hanno avuto una visione da scienziato sociale più che limitatamente tecnico-economica. La tradizione della scuola napoletana fu economica -di Genovesi con la prima cattedra di Economia in Europa- ma anche giuridica e sociale, i nomi di Gaetano Filangieri e di Mario Pagano (con i suoi contributi sulla legge feudale ed il decentramento amministrativo) sono esemplificativi dell’alto livello raggiunto. L’illuminismo ebbe infatti in una parte degli intellettuali di Napoli una delle sue patrie europee: ”La coltura degli ingegni e delle sode scienze è inseparabile dalla vera grandezza e felicità dello stato.”(* nota 5) ricordava Genovesi.
Si ragionava, quindi, di un progetto non solo economico, ma anche sociale e giuridico, come del resto aveva già invitato a fare l’illustre conterraneo Filangieri ribadendo l’importanza fondamentale di una buona istruzione pubblica: “Per formare un uomo, io preferisco la domestica educazione; per formare un popolo, io preferisco la pubblica…….senza l’educazione….non vi saranno cittadini”.
I cittadini e le loro virtù sono indicati come la vera base della ricchezza e della felicità di una nazione, più delle stesse materie prime. Infatti con l’ingegno è possibile risolvere i problemi e trovare soluzioni, mentre con l’ ignoranza è impossibile raggiungere mete elevate od anche solo una ordinata vita sociale. “La felicità di una nazione è inseparabile dalle vere virtù” …………..”La terza cosa, che abbiam detto conferire alla grandezza e felicità d’uno stato, e la quale vuol essere considerata come primaria, sono il severo e casto costume, e le buone leggi scrupolosamente osservate, genitrici ed educatrici del costume” (* nota 6).

Dopo l’Illuminismo l’attenzione al rapporto tra economia e felicità è rimasta lungamente sullo sfondo della riflessione degli economisti, ma ultimamentel’interesse sta tornando con forza. La scienza economica ufficiale non ha continuato e sviluppato la tradizione italiana, più antica, e si è concentrata sulla ricchezza della nazione, e in particolare su come aumentarla (divisione del lavoro, commercio internazionale) e come distribuirla tra le classi sociali. Forse per questo motivo, attorno alla metà del 1800, si è meritata l’appellativo di scienza triste (dismal science), coniato dallo scrittore inglese T. Carlyle1. Al di là della vena polemica dell’autore, questo appellativo non è eccessivo, anche se alcuni dei primi economisti, tra questi certamente Malthus, avevano posto con maggior forza il tema dell’intreccio sociale, demografico e normativo.

L’illuminismo di Genovesi, Giannone, Cirillo, Filangieri e di altri intellettuali fu “napoletano” nel senso etimologico, cioè non semplicemente assimilato dall’esterno, ma prodotto in quella Napoli del ‘700 che si era dimostrata un grande laboratorio di idee, ma dove sopravvivevano i privilegi feudali ed il lusso della nobiltà e del clero, mentre l’enorme massa plebea viveva nell’ignoranza, in balia dei prepotenti. Il tessuto sociale ridotto a brandelli era allora l’essenza anticipatrice di quella che sarebbe stata chiamata “questione meridionale”, in quanto impediva non solo il progresso, ma metteva in forse l’esistenza di quella parte della popolazione civile locale che a Napoli ha sempre dovuto fronteggiare sia nemici esterni che interni. La carta costituzionale del 1799 fu un esempio concreto di quanto gli intellettuali napoletani fossero anche più avanzati di quelli francesi (*nota 8).

Circa il pensiero della scuola napoletana, le sue riflessioni sono di estrema attualità perché pongono al centro del dibattito la relazione tra fini dell’economia, ruolo dello Stato e caratteristiche sociali. Essa affermava, cercando di individuarne alcuni punti salienti, che i fini dell’economia devono essere connessi al benessere civile; che lo Stato (ed il suo apparato) non è antitetico al benessere economico, individuale e sociale ma è chiamato ad assolvere il compito di garante e promotore in quanto espressione dell’ interesse collettivo; che la società con le sue caratteristiche, relazioni e valori, non è un sistema separabile da quello economico, ma strettamente interdipendente, quindi l’economia non è analizzabile astraendola dal sistema sociale. Riflessioni forse scomode, ma oggi non facilmente eludibili.
Viene da chiedersi, qualora fossero state riflessioni di studiosi inglesi o tedeschi se esse non avrebbero avuto ben altra attenzione. Essendo solo di italiani e per di più meridionali, sono state frettolosamente archiviate come astratte o poco rilevanti. Almeno sino ai giorni nostri.

*Note:
1 Loria Achille, 1904, p. 85

2 La scuola economica napoletana è totalmente ignorata in molti testi di storia economica. Il Roll cita il solo Galiani, allievo del Genovesi, affermando che “avrebbe meritato più ampia trattazione” (Roll E., Storia del pensiero economico, Torino, 1973)

3 Come non citare il Sen (Amartya Sen, Nobel per l’economia) quando afferma che “Il puro uomo economico è in effetti assai vicino all’idiota sociale”.

4 Anticipazione significativa, visto che oggi la maggior parte della popolazione mondiale vive in aree urbane.

5 Genovesi Antonio, da: “Delle lezioni di commercio o sia d’economia civile”

6 Da Genovesi, op. cit

7 Carlyle Thomas, in “An occasional discourse on the Negro question”, 1849

8 E’ oramai opinione diffusa tra gli studiosi che il testo costituzionale napoletano fosse più articolato, completo e giuridicamente bilanciato di quello analogo francese, in particolare per l’inclusione dei doveri oltre ai diritti.

1 Commento su "Economia e felicità nella tradizione illuminista napoletana"

  1. marco giacinto | 14 marzo 2011 su 10:07 | Rispondi

    Il primo fondamentale passo verso una più diffusa felicità sarà la rimozione della “tristezza” tuttora associata all’economia, come ben prefigurava il Carlyle: sgombrare l’economia stessa dal giogo del c.d. debito pubblico, trasferendo il diritto di stampare moneta da una cricca di banchieri privati, tesi esclusivamente al proprio profitto, allo Stato, costituzionalmente teso al benessere (e non solo “ben-avere”) dei cittadini. Scomparso il debito pubblico e il suo strascico di deficit annuali, l’economia potrà rifiorire e ritrovare le basi per una più felice esistenza di coloro che oggi dall’economia trasformata in finanza sono stati schiacciati, ossia la grande maggioranza degli italiani

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