comunità
internazionale (come si può ritenere ancora credibile che possa essere
risolto dai soli governi e cittadini libanesi?) e, al momento in cui
scrivo, Israele ha appena dichiarato di essere d’accordo.
A tal
proposito: ci sono motivi di contentezza per noi italiani in queste
settimane. Dopo le imprese di Cannavaro e soci, l’impegno italiano per una
mediazione con relativa sede a Roma, e vedere entrare nel porto di Beirut
la S. Giorgio come la prima nave che porta aiuti umanitari, fa piacere.
E alla
politica estera italiana potrebbe spettare il compito di insistere anche
sulla critica più sensata che si può rivolgere ad Israele: può questo
stato pensare di difendere la sua sicurezza con la sola supremazia
militare in una regione che lo vede isolato?
E’ vero che
per dialogare bisogna essere in due, avere interlocutori politici
affidabili e Hamas (almeno finora), la Siria, l’Iran non sembrano tali.
Tuttavia bisogna insistere su questa strada. Avevamo guardato con speranza
la rivoluzione dei cedri, dopo l’assassinio di Hariri, e il ritiro dei
siriani, che però hanno poi mantenuto la loro longa manus in questo
paese appoggiando gli hezbollah.
Se
equivicinanza significa essere a favore sia del diritto di Israele ad
esistere che a quello del popolo palestinese ad avere una patria, a non
vivere nomade e rifugiato, sono d’accordo; ma se equivicinanza vuol dire
essere equidistanti dallo stato israeliano e da regimi e movimenti che
mescolano politica e religione, non lo sono.
La parte di
generazione politica cui ho appartenuto negli anni ’70, si è formata sulla
difesa unilaterale della giusta causa palestinese, ma solo con il tempo ho
imparato davvero anche a conoscere l’importanza cruciale dello sterminio
degli ebrei e il diritto ad esistere nella sicurezza della stato di
Israele.
Ci sono
persone e movimenti che per sensibilità umana e morale, e/o per
infantilismo, manicheismo, vizio ideologico, non vogliono accettare che la
lotta contro la guerra non può significare tirarsi fuori dai conflitti
reali; la storia umana precipita regolarmente nell’inferno e, per quanto
mi riguarda, la misura del dolore è già da sempre colma e un solo bambino
disperato o morto è sufficiente a farmi desiderare di gridare: fermate il
mondo, voglio scendere.
Il regno
di Dio non è di questo mondo e, purtroppo, meno che mai in questo
tempo, della terra dove è stato annunciato ramificandosi nelle tre grandi
religioni.
Tuttavia ho
imparato che rinunciare a comprendere, a decidere, a schierarsi, benché
doloroso, accrescerebbe e non diminuirebbe le sofferenze di individui e
popoli.
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