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pagina 2

luglio 2006

Numero 8

Il conflitto
tra Israele ed Hezbollah

Stiamo ai fatti.

di Nicola Magliulo


Perché hanno lanciato razzi sui cittadini israeliani? Mi dia solo un motivo: noi non stiamo più a Gaza e loro prendono di mira i civili, bambini, donne. Che cosa si vuole da noi?...Hanno dichiarato una guerra. Per quale ragione hanno attaccato un carro armato? Il carro armato si trovava in territorio israeliano e loro ne hanno tirato fuori un soldato israeliano. Perché lo hanno fatto? Perché attaccarlo?”.

Questo un brano accorato tratto da un’intervista a Shimon Peres, vice-premier del governo Olmert, apparsa sul quotidiano Repubblica il 12 luglio scorso.
E più avanti Peres, notoriamente non un falco, continua: “Abbiamo lasciato Gaza volontariamente, ad un alto prezzo in termini umani, finanziari e di salute mentale. Abbiamo speso due milioni di dollari per smantellare i nostri insediamenti” mentre, successivamente, il lancio di razzi Kassam ha preso di mira quotidianamente città israeliane.

Un altro scrittore israeliano, noto per il suo impegno pacifista, David Grossman scrive, in un articolo pubblicato il 14 luglio sempre da Repubblica: “Israele si è sforzato di evitare scontri con i militanti di Hezbollah e come risultato si è creata una situazione insostenibile in cui in Libano, Stato sovrano, un’organizzazione definita dall’Onu ‘terroristica’ agisce indisturbata lanciando di quando in quando attacchi contro Israele. L’aggressione di tre giorni fa rende ancora più evidente il fatto che il governo libanese e l’Autorità palestinese mantengono un atteggiamento problematico ed equivoco nei confronti di Israele”.

Si poteva forse accettare di trattare uno scambio dopo che ti hanno rapito dei soldati nel tuo territorio? Chi vuole vedere dietro la reazione israeliana, discutibile nei modi quanto si vuole, un piano preordinato contro gli hezbollah, mostra di non potere fare a meno di dipingere la politica israeliana come alla ricerca di un pretesto per azioni aggressive, e di sminuire le responsabilità di chi ha in questo caso innescato la miccia. Come se poi non fosse giusto disarmare gli hezbollah, fermare le loro provocazioni, che è cosa diversa da pensare di sradicare il loro insediamento sociale.

Un compito che, certo, è auspicabile che venga svolto dalla

 

comunità internazionale (come si può ritenere ancora credibile che possa essere risolto dai soli governi e cittadini libanesi?) e, al momento in cui scrivo, Israele ha appena dichiarato di essere d’accordo.

A tal proposito: ci sono motivi di contentezza per noi italiani in queste settimane. Dopo le imprese di Cannavaro e soci, l’impegno italiano per una mediazione con relativa sede a Roma, e vedere entrare nel porto di Beirut la S. Giorgio come la prima nave che porta aiuti umanitari, fa piacere.

E alla politica estera italiana potrebbe spettare il compito di insistere anche sulla critica più sensata che si può rivolgere ad Israele: può questo stato pensare di difendere la sua sicurezza con la sola supremazia militare in una regione che lo vede isolato?

E’ vero che per dialogare bisogna essere in due, avere interlocutori politici affidabili e Hamas (almeno finora), la Siria, l’Iran non sembrano tali. Tuttavia bisogna insistere su questa strada. Avevamo guardato con speranza la rivoluzione dei cedri, dopo l’assassinio di Hariri, e il ritiro dei siriani, che però hanno poi mantenuto la loro longa manus in questo paese appoggiando gli hezbollah.

Se equivicinanza significa essere a favore sia del diritto di Israele ad esistere che a quello del popolo palestinese ad avere una patria, a non vivere nomade e rifugiato, sono d’accordo; ma se equivicinanza vuol dire essere equidistanti dallo stato israeliano e da regimi e movimenti che mescolano politica e religione, non lo sono.

La parte di generazione politica cui ho appartenuto negli anni ’70, si è formata sulla difesa unilaterale della giusta causa palestinese, ma solo con il tempo ho imparato davvero anche a conoscere l’importanza cruciale dello sterminio degli ebrei e il diritto ad esistere nella sicurezza della stato di Israele.

Ci sono persone e movimenti che per sensibilità umana e morale, e/o per infantilismo, manicheismo, vizio ideologico, non vogliono accettare che la lotta contro la guerra non può significare tirarsi fuori dai conflitti reali; la storia umana precipita regolarmente nell’inferno e, per quanto mi riguarda, la misura del dolore è già da sempre colma e un solo bambino disperato o morto è sufficiente a farmi desiderare di gridare: fermate il mondo, voglio scendere.

Il regno di Dio non è di questo mondo e, purtroppo, meno che mai in questo tempo, della terra dove è stato annunciato ramificandosi nelle tre grandi religioni.

Tuttavia ho imparato che rinunciare a comprendere, a decidere, a schierarsi, benché doloroso, accrescerebbe e non diminuirebbe le sofferenze di individui e popoli.
 

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